VEGLIA DI AVVENTO

02-12-2023

Cattedrale di S. Maria del Fiore

VEGLIA DI AVVENTO

2 dicembre 2023

(1Ts 5,13b-24; Sal 85; Mt 5,1-2.38-48)

 

“Figlio mio cerca la pace” (cf. 2Tm 2,22)

 

RIFLESSIONE

La nostra Veglia di Avvento è posta sotto parole di Paolo rivolte al suo collaboratore Timoteo: “Figlio mio cerca la pace”. È un’espressione che, nella sua formulazione completa, abbiamo cantato, riferite all’assemblea, nel canto dell’Alleluia che ha preceduto la lettura del vangelo: “Cercate la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro” (cf. 2Tm 2,22).

Vogliamo fare della nostra preghiera questa sera e di tutti i giorni che ci condurranno al Natale di Gesù un’invocazione della pace, per la nostra vita, per la Chiesa, per il mondo. Nel Natale, infatti, andremo a incontrare in Gesù il «Principe della pace» (Is 9,5), come annunciato da Isaia. E l’apostolo Paolo confermerà che «Egli è la nostra pace» (Ef 2,14). La pace si identifica con la persona stessa di Gesù in quanto in lui il Creatore si è ricongiunto con la creatura, il divino si è unito all’umano, Dio si è fatto uomo.

Sta qui, nel mistero dell’incarnazione, la radice di ogni pace tra gli uomini, la sorgente a cui gli uomini devono attingere per trovare pace, nel loro cuore e tra di loro. Non sarà mai possibile una pace nella vita della società umana se non a partire da una ricomposizione armonica da parte di ciascuno della propria personale identità, la pace del cuore. Non ci possono essere infatti motivi convincenti per annullare tensioni e conflitti tra gli uomini se non a partire dal riconoscimento di una fraternità che scaturisce dall’avere in Dio l’unico Padre. La questione della pace non è una semplice questione sociale, bensì alla sua radice una questione di fede. Non a caso san Paolo segnala a Timoteo che la pace giunge al termine di un itinerario che ha prima altre tappe: «la giustizia, la fede, la carità» (2Tm 2,22).

Veniamo alle due letture che abbiamo ascoltato in questa Veglia, cominciando dal vangelo, in cui è stato proposto un passo del discorso della montagna, in cui Gesù enuncia la novità del suo insegnamento rispetto a ogni altra possibile esperienza religiosa, inclusa quella della Prima Alleanza. Non si tratta di rompere con tutto questo, ma di levarsi a un livello più alto. Afferma Gesù: «Non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Egli chiama ad andare oltre la lettera della legge, della norma morale, per raggiungerne il cuore, l’intenzione più profonda, il perfetto adempimento, oltre gli orizzonti puramente umani.

Nelle parole che sono state proclamate ci viene detto che la pace chiede il superamento radicale dello spirito di vendetta, lo spirito che alimenta la legge del taglione e si riproduce nei vari modi con cui si tenta di dare forma a una specie di compensazione del male subito. Quel che propone Gesù ha invece il volto della mitezza e della condivisione.

La seconda antitesi, a sua volta, combatte l’idea che l’amore possa ammettere dei confini, familiari, sociali, etnici o religiosi; ci è chiesto anche di immaginare l’amore non come una semplice alternativa all’odio, ma come l’assunzione di una logica del dono che non attende ricompensa.

Soprattutto, però, quello che colpisce è che Gesù, per delineare le forme dell’amore, ponga di fronte a noi il volto stesso del Padre, il suo amore di pura grazia, la sua perfezione: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).

Infine, l’intero vangelo ci mostra che questa immagine di umanità trasfigurata dall’amore ha la sua concreta manifestazione nella persona e nella vita di Gesù e, nella comunione con lui, diventa possibile anche per noi.

Questa rivelazione della legge e della grazia dell’amore, nelle parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Tessalonica, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, diventa un parametro per la vita comunitaria: «Vivete in pace tra voi» (1Ts 5,13b). Sta qui il volto comunitario, anzi comunionale, della Chiesa, quel volto che stiamo riscoprendo anche operativamente nel Cammino sinodale.

E allora prendiamo nota di come Paolo pensa che questa pace, questa comunione debba essere assicurata e alimentata.

La prima indicazione che ci offre riguarda la fermezza nella verità, che non può essere infranta dall’indulgenza verso ciò che è oggettivamente errore e male. Ad essa però si connette l’esortazione all’attenzione per la fragilità dell’altro e il dovere a non lasciarlo solo, a sostenerlo invece, a incoraggiarlo nella ricerca del vero e del bene. Per far questo occorre avere un animo grande, lento all’ira, capace di pazienza, longanimità, presupposto di quell’atto sempre necessario in una comunità che è il perdono. Risuonano poi parole che si connettono a quelle che abbiamo ascoltate da Gesù e che invitano a evitare la ritorsione del male e, positivamente, a cercare sempre la crescita nel bene.

A questo punto la scena comunitaria diventa liturgica e siamo istruiti sugli atteggiamenti che edificano la comunità in quanto assemblea cultuale: la gioia, la preghiera incessante, la preghiera nella forma del rendimento di grazie con cui si riconosce la presenza di Dio nelle vicende della storia. Per san Paolo questi caratteri della preghiera hanno il loro fondamento nella volontà di Dio, che è il destinatario della preghiera ma anche la sua sorgente. In questa prospettiva la preghiera è sempre una risposta a una parola che ci è rivolta dal Padre.

Quanto segue, nelle parole di Paolo, dà rilievo alla presenza nell’assemblea di una ricchezza di carismi che va valorizzata ma anche ordinata. Nulla va represso, ma tutto va esaminato. Emerge il ruolo centrale del discernimento: solo così si può far spazio allo Spirito e alla profezia, con cui la parola di Dio viene posta in relazione all’esperienza del presente. Un discernimento che ha come criterio irrinunciabile la distinzione tra bene e male, senza indulgere, potremmo aggiungere, allo spirito del tempo, ma solo in fedeltà alla parola di Dio.

La conclusione del testo paolino ci incoraggia. La pace non è una nostra costruzione, compito umanamente troppo difficile, ma è un dono, una grazia divina che ci trasforma e ci fa uomini di pace: «Il Dio della pace vi santifichi interamente» (1Ts 5,23). La pace è opera di uomini trasformati da Dio a sua immagine, nella sua santità. Egli che ci ha chiamati, ci ha fatto Chiesa, non mancherà di elargire la sua pace. Per questo l’apostolo conclude: «Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo» (1Ts 5,24).

Per questo dono e per la sua accoglienza in noi e nel mondo, questa sera preghiamo. Questa pace attendiamo di ricevere dal Padre nel mistero del Natale di Gesù: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14).

 

Giuseppe card. Betori