Cattedrale di Santa Maria del Fiore
29 maggio 2022
Solennità dell’Ascensione del Signore – C
[At 1,1-11; Sal 46; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53]
OMELIA
L’immagine di Gesù che ascende al cielo viene proposta dall’evangelista Luca due volte, a conclusione del vangelo e in apertura degli Atti degli Apostoli. La liturgia propone entrambi i racconti al nostro ascolto, evidenziando così come essi non siano ripetizione l’uno dell’altro e si ripromettano due diversi scopi. Racchiudono però gli stessi elementi fondamentali, che formano quindi per noi la cornice che inquadra l’evento dell’ascensione.
Ci troviamo dopo la risurrezione del Signore in una, la conclusiva, delle sue apparizioni come risorto ai discepoli, esperienza costitutiva della loro futura testimonianza: potranno dire che Gesù è risorto dai morti perché si è mostrato loro vivo. Siamo al fondamento della fede cristiana.
Ma Gesù che appare ha anche una sorta di testamento da affidare ai discepoli e lo fa da una parte raccogliendo la memoria del cammino fatto da loro con lui prima della Pasqua e dall’altra tracciando il cammino futuro che li attende, la missione che consegna loro: proseguire la missione stessa di Gesù, in forza del dono dello Spirito Santo che riceveranno.
A questo punto si inserisce la scena del distacco di Gesù dai discepoli, un distacco che non è presentato come una scomparsa, ma come un innalzamento verso il cielo, cioè la sfera divina.
Arriviamo ora al modo distinto con cui l’ascensione di Gesù è presentata da Luca nel vangelo e negli Atti. Nel vangelo l’ascensione segna il compimento della missione di Gesù. Se la percezione visiva del corpo del Risorto viene meno non è perché egli abbandoni i suoi, smetta di essere una presenza per loro, ma perché egli è giunto al compimento alla sua missione, introducendo nel cielo, cioè presso il Padre suo, l’umanità che egli aveva assunto per abitare la terra. Il passaggio è segnato da un’azione di Gesù: egli benedice i discepoli, compie cioè un gesto con cui la salvezza, da lui acquisita sulla croce, viene ora comunicata a chi crede in lui. L’ascensione è il riconoscimento di Gesù come il Salvatore. Per questo alla sua benedizione corrisponde l’adorazione da parte dei discepoli. Nell’ottica del vangelo di Luca, Gesù che ascende al cielo è l’espressione visiva della signoria di Cristo sul mondo e sulla storia, la meta della sua missione tra gli uomini e l’obbedienza che d’ora in poi è richiesta a chi crede in lui. Come in una solenne liturgia si chiude il tempo di Gesù, e i suoi, che ne dovranno portare la testimonianza, sono chiamati ad adorarlo come il loro Signore.
Negli Atti degli Apostoli l’ascensione giunge invece al termine di un periodo di formazione dei discepoli alla missione, quaranta giorni, e si caratterizza anzitutto come esperienza visiva che permette ai suoi testimoni di attestare la sua glorificazione, il suo stare nella gloria di Dio, simboleggiata dalla nube. Ma ciò che soprattutto ci colpisce è che all’evento segue un dialogo che ne indirizza la comprensione. Due uomini in bianche vesti contestano l’atteggiamento dei discepoli che restano lì a guardare il cielo, che ha accolto il Signore, in attesa che egli ritorni. Per loro si apre un tempo nuovo, quello della missione e della testimonianza. C’è un tempo indeterminato davanti a noi, che proprio per questo dà valore a ogni momento come tempo di grazia: è il tempo che si estende tra l’ascensione e il ritorno del Signore alla fine dei tempi, un tempo da colmare dando continuità alla missione di Cristo, annunciando il regno di Dio e spargendo il suo seme nei solchi della terra, forti della vittoria sul male giunta a noi dalla Pasqua. È il tempo della Chiesa, tempo di comunicazione della salvezza, tempo di decisione di fronte a Cristo prima del suo ritorno come giudice della storia.
L’ascensione del Signore ci invita al riconoscimento di lui come il Signore, e quindi alla sua adorazione; al tempo stesso è richiamo alla nostra responsabilità di discepoli a cui è affidato il compito di essere segno della sua presenza nella storia. Questo duplice compito si intreccia con l’azione della comunicazione, dell’entrare in dialogo con gli altri per renderli partecipi dell’esperienza di vita che facciamo alla luce della signoria di Cristo e per trasmettere la memoria di lui. Una comunicazione, quella della fede, che si inserisce nell’insieme della comunicazione umana e che, nei tempi che viviamo, si avvale anche dei mezzi e dei processi della comunicazione sociale.
Ci disponiamo perciò ad accogliere quanto il Papa ha proposto nell’odierna 56.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che ha voluto dedicare al tema dell’ascolto: “Ascoltare con l’orecchio del cuore”. Papa Francesco, nel suo Messaggio, evidenzia come «stiamo perdendo la capacità di ascoltare chi abbiamo di fronte, sia nella trama normale dei rapporti quotidiani, sia nei dibattiti sui più importanti argomenti del vivere civile». Lo sperimentiamo particolarmente in questi giorni di guerra. È illuminante quanto osserva il Papa, cioè che «l’ascolto corrisponde allo stile umile di Dio. […] Dio ama l’uomo: per questo gli rivolge la Parola, per questo “tende l’orecchio” per ascoltarlo. L’uomo, al contrario, tende a fuggire la relazione, a voltare le spalle e “chiudere le orecchie” per non dover ascoltare. Il rifiuto di ascoltare finisce spesso per diventare aggressività verso l’altro». Di qui l’esortazione: «L’ascoltare è dunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire un’informazione solida, equilibrata e completa è necessario aver ascoltato a lungo». È un richiamo assai penetrante in un contesto di comunicazione sociale confuso, per la diffusione di falsità e per l’incapacità di confrontarsi con libertà e nella ricerca sincera della verità. Di qui le polarizzazioni che dividono la società e che la disgregano. Ma l’appello all’ascolto va anche oltre i confini della comunicazione sociale e tocca la stessa Chiesa. Continua il Papa: «Anche nella Chiesa c’è tanto bisogno di ascoltare e di ascoltarci. È il dono più prezioso e generativo che possiamo offrire gli uni agli altri. […] Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non sarà più capace di ascoltare nemmeno Dio». E l’ascolto, ricorda Papa Francesco, è carattere distintivo del processo sinodale che è stato avviato: «La comunione, infatti, non è il risultato di strategie e programmi, ma si edifica nell’ascolto reciproco tra fratelli e sorelle».
Dagli operatori delle comunicazioni sociali ai membri della Chiesa, fino a ogni uomo e donna nella società siamo tutti richiamati a metterci in un atteggiamento di ascolto, un ascolto con il cuore, con tutta la persona, che è la sola via che conduce alla verità e al concorde impegno nel costruire il bene comune.
Giuseppe card. Betori