1. La figura di San Sebastiano, che la Misericordia venera come suo patrono e quindi propone come modello a tutti i suoi membri, costituisce una delle testimonianza più alte del martirio cristiano. Potrebbe sembrare questo un messaggio che non ci riguardi, trovandosi la nostra professione della fede in condizioni assai diverse da quelle dei primi secoli dell’era cristiana. Ma prima di ritenere la memoria di San Sebastiano irrilevante per noi, per le modalità con cui oggi siamo chiamati a esercitare la nostra testimonianza, occorre una più profonda valutazione.
Essa non può partire che dalla constatazione per cui se nella nostra società la professione della fede non è più a prezzo della vita, così non accade per tanti altri nostri fratelli cristiani nel mondo. Per essi valgono ancora come attuali le parole che abbiamo ascoltato nel vangelo, in cui Gesù ci ricorda che la sua venuta nel mondo è un segno di contraddizione e una presenza che ferisce persino i rapporti più intimi e inquieta tutti i poteri nemici dell’uomo, per cui per essere degni di lui c’è una sola strada, quella della croce. Il mistero della croce si rinnova ancora oggi. Ogni giorno, possiamo dire, siamo raggiunti dalla notizia di un missionario ucciso, di un volontario assassinato che in nome del vangelo si era posto al servizio dei più poveri, di chiese cristiane bruciate, di inermi cristiani, uomini e donne, adulti e ragazzi, sterminati dal furore omicida dei nemici della fede e della carità cristiana. Tutti costoro sono i nuovi Sebastiano, che non arretrano di fronte a chi li minaccia e si offrono a condividere il mistero della croce di Cristo. Non sentirci estranei a questo martirio, fare sentire a quanti sono minacciati la nostra vicinanza, il nostro aiuto, circondarli con la nostra preghiera è un preciso dovere. Si tratta di essere solidali nella prova, come pure di fare le lecite pressioni perché chi ha ruoli di governo nel mondo assicuri a tutti l’esercizio della libertà religiosa, un tema troppo assente dai programmi politici, pur essendo la libertà di esprimere la propria fede il fondamento di ogni altro diritto dell’uomo.
Ma l’esempio di San Sebastiano non si ferma qui. Quel che si consuma nel suo sangue è una fedeltà totale al Signore, che se per noi può non giungere all’effusione del sangue, non per questo è meno esigente nel chiederci di aderire a lui senza esitazioni e senza compromessi. Ma questa totalità di dono di sé al Signore è possibile solo se, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, la nostra vita è vissuta non nella prospettiva di una realizzazione di sé in questo mondo ma nella visione di una vita che trova il suo significato pieno solo oltre la morte, nell’eternità stessa di Dio. Scopriamo così il legame tra il martirio di sangue del nostro patrono e il dono di servizio della nostra vita che la Misericordia ci chiede, quando ci invita a vedere nel volto di ogni nostro fratello il volto stesso di Cristo, da soccorrere e servire. Tra la generosità per il Vangelo che conduce al martirio e la generosità per i fratelli che conduce al servizio non c’è una separazione, ma al contrario una profonda continuità. Questa continuità è la persona stessa di Gesù, che tanto il martire quanto il servo seguono sulla strada della spoliazione di sé verso la croce.
Ed ecco allora che diventa essenziale per il martire, come per noi, una configurazione a Cristo, che si può raggiungere solo attraverso una trasformazione interiore, che è il frutto della conversione e della preghiera. Permettete che insista su questa configurazione a Cristo, perché proprio qui sta la differenza tra il servizio caritativo del cristiano e una qualsiasi filantropia. Non è il bisogno dell’altro a commuoverci e a muoverci, ma la convinzione di fede che in ogni uomo e in ogni donna io servo Cristo stesso.
E nel rendere questo servizio noi rendiamo testimonianza a Cristo, come ci ha ricordato la seconda lettura, dove l’apostolo Pietro ci ha richiamati a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi. La risposta è certamente quella dell’argomentazione della fede secondo congruità e ragionevolezza, ma è anche la risposta concreta di una vita rinnovata dall’incontro con Gesù, che ci invita a seguirlo sulla sua strada di amore, quella strada in cui, secondo quanto ci dice egli stesso nel vangelo, solo perdendo la propria vita la si salva veramente. A noi è chiesto di perdere non la vita ma qualche ora del nostro tempo, qualche possibile guadagno in più, qualche spazio di privatezza per dedicarci agli altri. In questo si esprime la nostra buona condotta in Cristo. Avendo cura, come ci ricorda san Pietro, di fare tutto non con la supponenza di chi si vuole imporre agli altri, né ovviamente con secondi fini, ma con dolcezza, con rispetto, con retta coscienza. Saremo così degni eredi del nostro patrono.
X Giuseppe Betori
Arcivescovo di Firenze