Messa per l’apertura dell’anno accademico dell’Università di Firenze

16-02-2009


  


Chiedere un segno dal cielo potrebbe apparire un’agevole soluzione per Gesù stesso oltre che per i suoi contemporanei. Di fronte a una tale evidenza non ci sarebbero stati più problemi di comprensione o di fede. Gesù non sarebbe stato più costretto a ricorrere ad argomentazioni che faticavano a scalfire la durezza di cuore e di mente dei suoi ascoltatori. I suoi contemporanei sarebbero stati liberati dall’obbligo di un’ardua decifrazione di una presenza inquietante ma non prescrittiva. In questo spazio di libertà e di ricerca, lasciato sgombro dall’assenza di un segno dal cielo, si colloca l’avventura della fede come pure quella della conoscenza, l’itinerario del sapere e al tempo stesso dell’esperienza religiosa.


La grandezza e il limite dell’uomo sta proprio qui: non gli è dato un sapere assoluto in forza di una evidenza cogente, che ne annullerebbe la libertà e farebbe scomparire ogni separazione tra fede e scienza. Dio e la sua verità non ci si impone per evidenza indiscutibile, ma si avvicina a noi nella incertezza dei segni poveri dell’umanità di Gesù e lascia campo alla ricerca dell’uomo in tutto ciò che concerne la costituzione e le vicende del mondo. In tale prospettiva, fede e scienza non si oppongono tra loro, ma scaturiscono ambedue da una volontà divina che rispetta l’uomo nella sua libertà in ordine alla fede e nella sua ragione in ordine alla conoscenza del mondo.


Non ci meraviglia pertanto che l’impulso più forte dato alla ripresa delle scienze nel mondo occidentale sia maturato nel contesto di quei luoghi della ricerca di Dio che sono stati i monasteri medievali. Ce lo ha ribadito il Santo Padre al Collège des Bernardins a Parigi: «Il desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola. Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo ‘ una formazione con l’obiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola» (Benedetto XVI, Discorso in occasione dell’incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008). E quanto il Papa afferma a riguardo delle scienze della letteratura e quindi delle scienze umane vale anche, e tutta la storia sta a dimostrarlo, per le scienze della natura, anch’esse nate in forte simbiosi con la ricerca del Dio creatore. Quanto lontane da questa visione sono le pretestuose parole di quanti, da una parte e dall’altra, vorrebbero scavare un abisso tra fede e ragione, tra esperienza religiosa e itinerario di conoscenza mediante le scienze! Non è questa come abbiamo visto la posizione autentica della Chiesa, che nella radice della fede trova le motivazioni del rispetto della ragione e delle sue vie.


In questa prospettiva ci è dato di cogliere anche nella pagina tratta dal libro della Genesi un prezioso insegnamento per l’occasione che oggi celebriamo. Abele e Caino costituiscono infatti il simbolo dell’emergere della cultura nella storia umana, quando, dalla condizione di predatori, gli uomini passano a farsi allevatori di bestiame e coltivatori del suolo. È il primo passo della civiltà, non privo però di insidie, come l’uccisione di Abele per mano di Caino vuole insegnare. Le due forme di civiltà si oppongono infatti tra loro e invece di arricchirsi reciprocamente nella diversità si tramutano in occasione di contrasto e di morte. Dominare il progresso senza ridursi schiavi dei suoi meccanismi perversi, accettare l’altro come una ricchezza per me e non come un pericoloso concorrente, sono prospettive di drammatica attualità in questo inquietante scenario di un’umanità che rischia di perdere la misura di se stessa di fronte alla novità tecnocologica e rischia il conflitto delle civiltà nel mondo fattosi sempre più piccolo. La ricerca di un sapere che sia autenticamente umano e umanizzante, e al tempo stesso capace di favorire l’incontro e la convivenza, è oggi un dovere inderogabile degli uomini di studio e delle istituzioni culturali.


Ma la narrazione della nota pagina genesiaca ci dice ancora altro, nel momento in cui evidenzia come la morte entri per la prima volta nell’umanità quando l’uomo smette di sentirsi responsabile dell’altro, del prendersi cura di lui, come suo custode. La società pacifica non può scaturire dal semplice disporsi l’una accanto all’altra di storie non condivise, anzi volutamente estranee in nome di un’assoluta autonomia. Occorre che si rifaccia strada, nel nostro pensiero anzitutto e poi nei nostri comportamenti, quel farsi carico dell’altro che fonda condivisione di intenti, convergenza di giudizi, corrispondenza di speranze. Anche qui risulta evidente la giustezza di quell’orientamento tipicamente cristiano che unisce verità e carità in una medesima prospettiva, che sconfigge il nichilismo e la dispersione, e cioè la condizione raminga e fuggiasca dell’omicida Caino nella Genesi.


Ma vorrei attirare la vostra attenzione anche sulla svolta finale della narrazione, quando il colpevole Caino diventa il protetto di Dio, che ne salvaguarda la vita dalla vendetta di sangue, ponendo su di lui il suo segno. Non c’è soltanto infatti il versante negativo, per cui chi non rispetta l’uomo perde egli stesso la piena condivisione alla condizione umana e si trova a spartire la vita delle fiere selvagge nell’ostilità della natura. C’è anche il messaggio positivo, per cui non c’è condizione umana che possa comportare un venir meno della sua identità e dignità più profonda, che altre pagine del testo biblico avevano definito essere creato a «immagine» di Dio, secondo la sua«somiglianza».


Su questa alterità dell’uomo rispetto al resto del creato, su questo suo connaturale legame con il Creatore si è edificata nei secoli una sapienza umana e cristiana, che nel riconoscere la centralità dell’uomo non lo ha mai opposto al mondo e a Dio, ma lo ha riconosciuto in una dignità personale che lo qualifica in ordine agli itinerari della conoscenza e della libertà. Rispettare i fondamenti di questo umanesimo è garanzia di futuro per l’umanità e via maestra dell’incontro tra fede e ragione, per quanti vogliono essere coerentemente cultori e dell’una e dell’altra, senza opposizioni e senza confusioni. Non era forse questa la grande intuizione di Galileo Galilei, che celebriamo quest’anno nel centenario delle sue scoperte astronomiche, lui che affermava non potersi dare contraddizione tra il libro delle fede e il libro della natura, che avevano il medesimo autore? A dimostrare quanto poco vicino a Galileo sia chi vorrebbe opporlo alla fede, è infatti sufficiente ricordare questa sua parola: «procedono di pari dal Verbo divino la Sacra Scrittura e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio». In questo orizzonte il Concilio Vaticano II invita a collocare l’esercizio della ricerca umana:«La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio» (Gaudium et spes, 36). È una frase che nel testo conciliare precede immediatamente il riconoscimento dell’errore compiuto nei riguardi di Galilei: «A questo punto, ci sia concesso di deplorare certi atteggiamenti mentali, che talvolta non mancano nemmeno tra i cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, e che, suscitando contese e controversie, trascinarono molti spiriti a tal punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro» (Ivi). Possiamo perciò concludere, ancora con le parole del Concilio: «La cultura, scaturendo dalla natura ragionevole e sociale dell’uomo, ha un incessante bisogno della giusta libertà per svilupparsi e le si deve riconoscere la legittima possibilità di esercizio autonomo secondo i propri principi. A ragione dunque essa esige rispetto e gode di una certa inviolabilità, salvi evidentemente i diritti della persona e della comunità, sia particolare sia universale, entro i limiti del bene comune» (Gaudium et spes, 59). Di queste condizioni di libertà fa parte anche il doveroso sostegno economico che la società deve riconoscere alle istituzioni di cultura e di formazione, cui dovrà corrispondere un uso secondo principi di efficienza e di servizio al Paese. Sono auspici che hanno una loro attualità e che affidiamo a quanti hanno responsabilità in questi ambiti. Li accompagna la convinzione che ogni sforzo compiuto sul versante della cultura e della formazione è un bene durevole e che racchiude in sé promesse di futuro per tutti.


A chiudere questa riflessione vorrei tornare alla parola di Gesù nel vangelo, a quella negazione del segno dal cielo che ha schiuso le porte alla libertà e alla conoscenza dell’uomo sulla terra. Eppure occorre ricordare che un segno escatologico Gesù lo offre ai suoi discepoli quando, risorto, appare loro come vivente. In quel momento il cielo incontra la terra e una radice di speranza si innesta nel futuro dell’umanità. Anche i saperi umani ricevono da questo nuovo orizzonte un impulso che ne svela il significato più intimo. Così la fede non solo non ostacola la conoscenza ma ne diventa un supporto e uno stimolo. È questa la strada di piena umanità che anche oggi il Signore propone a chi crede in lui.


 


X Giuseppe Betori


Arcivescovo di Firenze