Messa per la Festa della B.V.M. del Conforto

[Is 66,10-14c; Sal 29; 2Cor 1,3-7; Gv 19,25-27]
15-02-2009


Il breve brano del vangelo secondo Giovanni che ha concluso la liturgia della parola di questa celebrazione costituisce uno dei vertici teologici ed emotivi dell’intero Nuovo Testamento. Gesù, tra inenarrabili sofferenze sta concludendo la sua vita tra noi, e dal suo cuore colmo di tenerezza per l’umanità sgorga un gesto che dice tutto del suo amore per la Madre sua e per i suoi discepoli. Egli sa bene quanto pesante possa essere la sua assenza, quanto triste la solitudine di chi non potrà più ascoltare la sua voce e rallegrarsi della sua presenza. Questa amara solitudine è quella che sperimenta ogni uomo nella sua lontananza da Dio, in quella condizione di spaesamento e di abbandono che segna gli aspetti più tragici della condizione dell’uomo contemporaneo.


Ma, contrariamente a quanto certa cultura contemporanea vorrebbe farci credere, non siamo una particella casualmente venuta all’esistenza e condannata al non senso, bensì il frutto di un amore divino che resta fedele e ci accompagna per sempre. La morte di Gesù non è un abbandono, ma un passaggio necessario per aprire all’uomo la strada di un modo nuovo di essere da lui amati, un modo che scaturisce dal dono totale di sé sulla croce e che si esprime nella presenza oltre la morte di lui risorto mediante la luce e la forza del suo Spirito.


E un segno tenero, concreto e rivelativo di questa presenza d’amore spirituale di Cristo per noi è il legame che sotto la sua croce egli stesso stringe tra la sua Madre e il discepolo senza nome qualificato solo dall’essere amato da Gesù, quindi tutti noi discepoli suoi. In questo atto Maria, che sta perdendo nel tempo il suo Figlio riceve una moltitudine di figli, non in sostituzione dell’Unico ma in allargamento di cuore verso un popolo che forma il nuovo corpo di cui suo Figlio, il Cristo, è capo. Dall’altra i discepoli incontrano nell’amore della Madre la mediazione necessaria perché non possano mai mettere in dubbio l’amore del Figlio, che diventa proprio in quel dono il loro Salvatore.


Mi piace qui ricordare come la moltitudine di grazie che il popolo di Arezzo ha ricevuto in questi due secoli per la mediazione della Vergine Maria del Conforto inizi con un fatto se si vuole umile, ma altamente simbolico: il rischiararsi di un’immagine divenuta illeggibile sotto le troppe esalazioni che ne avevano offuscato il volto. Ma è proprio questo anzitutto il modo con cui Maria ci ama e ci è di conforto, nel dare luminosità alla nostra fede, così da rendere visibili i tratti del volto di Cristo e farcelo riconoscere nelle nebbie del tempo, anche di questo difficile tempo, in cui proprio il farsi oscuro nella coscienza dei più del volto di Dio e del Figlio suo comporta che si oscuri anche il volto dell’uomo e si perda la consapevolezza del suo assoluto valore e della sua intangibile dignità come persona.


Ma nel fare del discepolo un figlio di Maria, Gesù rivela anche la dignità nuova che ai credenti è donata in forza di quel che sta accadendo sulla croce. La vita che, per così dire, fugge da Gesù viene trasferita nell’esistenza del discepolo, che viene in tal modo cristificato e quindi reso intimo della famiglia stessa del figlio di Dio. Maria entra nella casa del discepolo ed è lei, la Madre del Figlio di Dio, che con la sua presenza trasforma questa dimora umana in una dimora divina, la santa Chiesa in cui si fa esperienza di quel fondamentale conforto che è la redenzione del genere umano. Collegare la figura di Maria all’esperienza del conforto, prima ancora che evocare grazie, guarigioni, sollievo materiale e spirituale concesso ai fedeli, significa far memoria che in forza del sacrificio del suo Figlio è data all’umanità la possibilità di liberarsi dai legami del male e del peccato ed entrare nella stessa vita divina. Venire quindi ai piedi della Madonna del Conforto esige che ciascuno di noi si senta impegnato nell’accogliere con gratitudine questo dono di salvezza e vivere con coerenza la nostra vita cristiana come specchio di questo dono di novità e di bene offerto a tutti. A fare esperienza di questa novità di vita serve essere Chiesa, e lo dico con particolare sollecitazione in questo giorno in cui la Chiesa di Arezzo-Cortona-Sansepolcro celebra il decimo anniversario dall’ingresso del suo amatissimo vescovo mons. Gualtiero Bassetti, a cui da qui voglio rinnovare intensi sentimenti di affettuosa fraternità e ringraziarlo per il sostegno che mi offre in questi miei primi passi di vescovo in terra toscana.


‘Rallegratevi con Gerusalemme’ (Is 66,10) è il grido che ha aperto la prima lettura di questa liturgia, un’esortazione che riecheggia nel Nuovo Testamento nell’episodio dell’annuncio a Maria, salutata dall’angelo con la medesima espressione: ‘Rallégrati, o piena di grazia: il Signore è con te’ (Lc 1,28). Questa attestazione dell’evangelista Luca ci permette di rileggere l’intera profezia di Isaia non più riferita alla Gerusalemme storica, alla città di Sion, ma a questa fanciulla di Nazaret, che da quel momento è la nuova Sion, il nuovo tempio di Dio, l’abitazione del suo Figlio. Per questo le icone di commovente maternità che intessono il testo di Isaia ora ci riguardano, per il tramite dell’episodio evangelico, nel nostro rapporto con Maria. Dal suo seno discende per noi una ricchezza di consolazioni, un nutrimento di vera vita, un conforto di tenerezza che ci assicura gioia, freschezza, rigoglio di vita. Dante farà dire a san Bernardo nella contemplazione del Paradiso:


«Qui se’ a noi meridïana face


di caritate, e giuso, intra i mortali,


se’ di speranza fontana vivace».


Poche volte nella storia l’umanità ha tanto sentito come oggi bisogno di speranza, stretti tra le nebbie di una congiuntura economica in cui la mancanza di etica nella finanza sta facendo pagare prezzi alti ai più deboli, sgomenti di fronte ai tanti episodi di feroce violenza che insanguinano le nostre città, schiacciati da un progresso che offre strumenti sempre più efficaci ‘ anche nel dare prospettive più lunghe alla stessa esistenza ‘, ma che non siamo capaci di orientare in senso veramente umano per difetto di coscienza.


Se però vogliamo che la parola della fede, anche in questi duri frangenti, risuoni come una parola di consolazione e di conforto, non possiamo fare a meno di confrontarci con la sua radice, ribadita nel testo di Paolo ai cristiani di Corinto. Noi possiamo sperimentare consolazione e possiamo essere promotori di consolazione per tutti, solo se ci ancoriamo alla sorgente stessa dalla consolazione che è l’agire di Dio Padre nel suo Figlio Gesù. E questo significa da una parte che la sofferenza non può mai essere esorcizzata o rifiutata come qualcosa di inumano, bensì accolta come un luogo anch’esso di umanizzazione, che nell’esperienza di Cristo diventa il tramite della stessa manifestazione del suo amore. Ma ancor più in questa situazione conflittuale che appartiene alla stessa condizione umana ci è chiesto di vivere la nostra vita come dono di noi stessi, quale è stata l’esistenza di Gesù per noi, che proprio in questa sofferente donazione ci ha svelato il volto di Dio come Amore. Condividendo, con-soffrendo, facendoci carico gli uni degli altri si apre di fronte a noi un cammino di rinnovamento personale, ecclesiale, culturale e sociale che schiude prospettive davvero nuove rispetto a un mondo che è altrimenti condannato a ripiegarsi su di sé, nell’inevitabile conflitto dei contrastanti desideri.


Questa capacità di limpida testimonianza di solidale conforto, e di dedizione premurosa soprattutto verso i più deboli, di comprensione del valore della croce e di esplorazione delle strade dell’amore vogliamo chiedere quest’oggi a Maria, la vergine Madre del Conforto. Il suo tenero amore ci sorregga e non venga mai meno nel nostro cuore la certezza della presenza del suo Figlio, che sia luce e sostegno al nostro cammino. Amen.


 


X Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze