Giovedì Santo ‘ Messa Crismale

[Is 61,1-3.6.8-9; Sal 88; Ap 1,5-8; Lc 4,16-21]
09-04-2009


 


 


 


 


«La Messa crismale, che il Vescovo concelebra con i presbiteri delle diverse zone della diocesi e durante la quale benedice il santo crisma e gli altri oli, è considerata una delle principali manifestazioni della pienezza del sacerdozio del vescovo e un segno della stretta unione dei presbiteri con lui». Queste le parole delle Premesse al rito della Benedizione degli oli nel Pontificale Romano. Esse risuonano con particolare emozione nel mio cuore in questo momento, in questa mia prima celebrazione del Triduo pasquale nella diocesi che il Santo Padre mi ha affidato. Sento infatti con particolare gioia e al tempo stesso con più intensa responsabilità il ministero di Pastore di questa diocesi nella comunione con i miei presbiteri e nella collaborazione dei diaconi.


Un momento alto dunque di comunione e di corresponsabilità, che va circondato da sentimenti di fraternità e di affetto, ma abbisogna anche di un chiaro fondamento teologico, che solo può tenerci insieme, al di là delle simpatie, delle consonanze ideali, delle stessa volontà di cooperazione per il bene della gente. Ebbene, la liturgia odierna ci dice che tale fondamento va ricercato su un piano propriamente sacramentale, perché è in questa radice del sacramento e nell’essere posti al servizio della vita sacramentale del popolo di Dio che attingiamo al nucleo profondo della nostra identità. Non voglio con questo sminuire la dimensione profetica del ministero sacerdotale, ovvero quella comunionale e testimoniale. Ma queste, senza il riferimento sacramentale, si ridurrebbero presto a vuota ideologia o a un prassismo senza orizzonti. È infatti nel sacramento che il Vangelo ci riconduce a quel regime di grazia in cui ci appare come la salvezza sia anzitutto un dono e la logica del dono presieda ad ogni retta spiritualità e pastorale, sfuggendo alle sirene del pelagianesimo pronte a insinuarsi dentro di noi, uomini di oggi troppo imbevuti delle illusioni di autonomia ed emancipazione per accettare che la nostra liberazione possa venire da un Altro, dall’Alto. Ma è proprio questo che ci ricorda la prima delle letture proclamate, dove il testo isaiano ribadisce che è l’irruzione dello spirito divino mediante l’unzione ad aprire un orizzonte di liberazione per l’uomo e il costituirsi dello stesso popolo di Dio, la «stirpe benedetta dal Signore» di Isaia e il «regno» e i «sacerdoti per il suo Dio e Padre» dell’Apocalisse.


Al centro di questa natura sacramentale della vita cristiana sono gli oli che tra poco consacreremo in questa chiesa cattedrale. Sono gli oli che ci fanno cristiani, che curano le nostre debolezze, che trasmettono il sacerdozio cristiano, da cui fluisce il perdono di Dio e la memoria reale del sacrificio di Cristo che dona la sua carne e il suo sangue per la nostra vita. Tutta la vita sacramentale scaturisce da questi oli, che ricevono il loro potere di salvezza dalle parole e dai gesti che il vescovo compie attorniato dal suo presbiterio. E se senza la vita sacramentale non c’è Chiesa, allora questa è strettamente congiunta alla comunione del vescovo con i suoi presbiteri, un comunione nel mistero che deve manifestarsi come comunione nei fatti. Questo appello alla comunione vorrei anzitutto rinnovare quest’oggi, per una Chiesa che sia nel mondo epifania dell’amore trinitario di Dio. Così che ciò che chiedo a me e a voi non è la massificante uniformità di una unità fatta dall’indifferenza, ma il legame che nasce dall’intrecciarsi delle relazioni di quanti, pur diversi nelle esperienze e nella modulazione dell’unica verità, si sentono però orientati verso lo stesso Vangelo di Cristo così come è annunciato dalla ininterrotta tradizione del magistero dei pastori nella Chiesa. Più che allo stanco ripetersi di una melodia monocorde mi piace pensare all’armonia polifonica in cui ciascuna voce cerca la sintonia con le altre, per una comunicazione che esprima intelligenza della realtà e bellezza dell’esperienza.


Ma perché questo avvenga è necessario che ciascuno di noi ritorni alla radice sacramentale del proprio ministero, che non ci si lasci ridurre ad agenti sociali, pur apprezzati e benvoluti, e neppure a funzionari di un sacro a cui ricorrere come rifugio delle angosce umane. Quel che siamo lo siamo soprattutto perché dalle nostre povere mani esce la forza stessa dello Spirito di Dio, che comunica la rinascita dell’uomo a vita nuova, gli trasmette il perdono del Padre, gli offre il Corpo e il Sangue di Cristo, benedice il progetto d’amore che Dio ha pensato per un uomo e una donna, lo sostiene come balsamo nella sofferenza. La giusta insistenza che in questi anni abbiamo riservato ai temi della evangelizzazione e della testimonianza non deve farci dimenticare tutto questo. Al contrario, evangelizzazione e testimonianza proprio intrecciandosi con il nostro ministero sacramentale trovano alimento e destinazione.


Che altro è infatti l’evangelizzazione se non annunciare l’amore di Dio e introdurre al mistero di questo amore che i sacramenti attuano per la vita di ciascuno. Servire la dimensione sacramentale della Chiesa significa allora anzitutto impegno a mostrare come nel regime sacramentale possiamo cogliere il primato di Dio nella storia e come esso si manifesti a noi ed entri in contatto con la nostra vita grazie alla mediazione di Cristo, che dei sacramenti è il fondamento e il fondatore.


Non meno importante è la cura che ogni presbitero e ogni diacono devono riservare alla corretta celebrazione dei riti sacramentali, perché non sia il nostro protagonismo a prendere il sopravvento sulla verità del sacramento, o peggio questa rimanga oscurata dalla sciatteria e dall’improvvisazione della celebrazione. La bellezza non è aspetto secondario nella vita della Chiesa, nel suo mostrare agli uomini quanti ami il suo Signore e quanto la verità del Vangelo risplenda di gloria e generi stupore in un cuore ben disposto. Su questa cura della ordinata e armoniosa celebrazione dovremo impegnarci di più, stimolati peraltro dall’essere custodi di tanta bellezza ricevuta in eredità dai nostri padri.


Cura del sacramento vuol dire poi curare che la sua grazia continui a sprigionarsi nella vita di chi lo ha ricevuto. A questo soccorre un’adeguata mistagogia e la promozione di un coraggioso impegno di testimonianza. Il fare del cristiano, infatti, non scaturisce da un estrinseco dovere etico, ma dall’irradiarsi della vita nuova che il sacramento genera e rigenera, ridando ai lineamenti della nostra vita le fattezze di quell’immagine di Dio che il Creatore ha inscritto in noi e che il Redentore è venuto a risvegliare.


La vita sacramentale nella Chiesa è, infine, circolazione del medesimo Spirito in tutte le membra del corpo mistico di Cristo e questo ne fonda la profonda unità. Da questa unità sacramentale trae alimento la comunione che deve edificarsi tra noi, nel presbiterio, con i diaconi e gli altri ministri, con i fratelli e sorelle della vita consacrata, con tutti i fedeli. Ma sappiamo anche che questa stessa comunione non ci rinchiude in noi stessi, ma al contrario spinge la Chiesa verso tutti gli uomini, sapendo che l’amore di Dio che la genera non ha confini e vuole raggiungere ogni uomo, soprattutto i miseri, i cuori spezzati, gli schiavi, i prigionieri, gli afflitti. Comunione e servizio, unità e missione sono due volti dell’unico amore di Dio che ci si dona e ci vuole donati.


Non possiamo però dimenticare che tutto questo accade in quell’«oggi» che il Vangelo ci aiuta a identificare nella persona di Gesù, colui nel quale si compiono le Scritture e che nella sua esistenza tra noi proclama «l’anno di grazia del Signore», lui il consacrato dall’unzione dello Spirito che, risorto, continua a effondere lo Spirito sui suoi discepoli. La radice del nostro sacramento, cari presbiteri, come pure la radice dei sacramenti che amministriamo nella Chiesa è dunque Cristo. Solo restando uniti a lui sia la nostra identità che il nostro servizio nella Chiesa e nel mondo potranno trovare verità ed efficacia. A questa unione a Cristo, alla conoscenza e all’amore di lui siamo ricondotti in questa riflessione sulla dimensione sacramentale del ministero e della Chiesa. Non manchi mai nella nostra vita quotidiana questo guardare a Cristo, dialogare con lui, lasciarci da lui guidare e sostenere.


Voglio però terminare con alcune parole di fraterno ringraziamento. Da quando sono giunto tra voi ho trovato in voi, cari preti e cari diaconi, come pure in tutto il popolo di questa città e del suo territorio, un afflato di affetto e di condivisione che è per me una grande risorsa, proprio perché non voglio vedervi una pur encomiabile esternazione di sentimenti, ma il riflesso di una fede profonda nel ministero del vescovo. Ma ancor più voglio ringraziarvi per il sostegno che date al mio ministero con il quotidiano vostro servizio nei compiti che vi sono stati affidati, con la generosità e la creatività che sono tipiche di questa terra. È per me un dono sapere di poter contare su questa dedizione al ministero che vi vede spendervi tra la gente, in mezzo a tante preoccupazioni e magari non con i frutti che vi attendereste. Questa fedeltà è una grande consolazione e una risorsa da cui partire verso i traguardi che il Signore ci indicherà. Non mancano neanche qui, come ovunque, spine e tribolazioni, ma esse non intaccano sostanzialmente il quadro bello e incoraggiante di una Chiesa fedele e viva. Di questo ringraziamo il Signore, con serena fiducia nel futuro che egli stesso ci prepara. Intanto gli ribadiremo il nostro sì nelle promesse che tra poco rinnoveremo e soprattutto nella celebrazione che questa sera vedrà tutte le nostre comunità fare memoria della sua ultima cena. In quel dono d’amore vogliamo far entrare anche il nostro amore, per lui, tra noi e per la nostra gente.


 


+ Giuseppe Betori


Arcivescovo di Firenze