Messa con i politici fiorentini giovedì V settimana di Quaresima

02-04-2009


[Gen 17,3-9; Sal 104; Gv 8,51-59]


 


 


 


1. La figura di Abramo domina le pagine della Sacra Scrittura che la liturgia propone alla nostra riflessione in vista della Pasqua in questo giovedì della quinta settimana di Quaresima. Abramo ci viene proposto in una duplice veste. Nel testo della Genesi come il destinatario di un patto che lo lega a Dio e, attraverso di lui, lega a Dio l’intero popolo d’Israele, mediante il dono della discendenza e della terra. Nella pagina del Vangelo diventa invece il testimone della vera identità di Cristo, cui si oppone invece la cecità dei contemporanei di Gesù, che non sanno andare oltre l’evidenza e si precludono alla rivelazione della verità.


2. Nella breve riflessione che vorrei proporre, ritengo di dover partire dalla pagina evangelica, per coglierne la logica stringente in ordine a una retta impostazione del problema della fede e quindi della sua testimonianza. Se infatti il problema che Gesù pone è quello di osservare la sua parola così da avere accesso alla vita e sconfiggere la morte ‘ «Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte» ‘, il dialogo con i suoi uditori rivela che la risposta a tale invito non sta semplicemente in un cambiamento del fare umano, ma più profondamente nell’atteggiamento di fondo che l’uomo assume nei confronti di Gesù e della sua identità. La parola di Gesù emerge in tutta la sua assolutezza e nella sua radicale alterità rispetto al pensare umano, fino a far esplodere nell’interrogativo insolente: «Chi pretendi di essere?». E davvero aliene alle prospettive umane sono le pretese di Gesù rispetto agli schemi degli uomini, chiusi nell’orizzonte ristretto del loro tempo e incapaci di vedere oltre. Solo accettando di cambiare parere attorno alla identità di Gesù, solo accogliendo la sua pretesa di un rapporto assolutamente unico con Dio Padre, radicato in un «prima» rispetto a ogni creazione e a ogni creatura, si può accettare di accogliere la novità della sua parola. Abramo è testimone di tutto questo, e nel suo inchinarsi di fronte al primato del Cristo mostra il senso dell’intera storia del popolo che da lui ha preso origine. La fede nella persona di Gesù come il Figlio di Dio fatto uomo diventa la discriminante di una vita che esce dalla menzogna e si lascia illuminare dalla verità.


Mi si permetta di dire, di fronte a questa assemblea, che il compito che si trova a svolgere colui che si fa carico del bene comune della società umana è anch’esso legato a questa logica, che chiede di premiare la ricerca e il riconoscimento della identità rispetto alle esigenze del fare secondo giustizia. Un buon progetto a servizio della città non nasce dall’assemblaggio di pur lodevoli provvedimenti che creano sviluppo e coesione. Questi non si danno se prima non si è ricercata quella verità sull’uomo e sul mondo, da cui sola discende il volto della giustizia e della pace. In questa prospettiva una corretta antropologia è la stella che segna l’orientamento della rotta nelle tempeste dei nostri tempi. Per un cristiano poi va da sé che uomo e mondo si comprendono solo dal loro riferimento a Dio, e quindi dal riconoscimento della innata apertura del cuore umano alla trascendenza. Non si può servire con saggezza l’uomo e la società se non a partire da una illuminata consapevolezza di chi è l’uomo e di come si configura la sua convivenza.


3. E quest’ultimo termine ci rimanda alla prima lettura, dove emerge come l’esistenza di Abramo, l’esistenza dell’uomo è definita fondamentalmente nella sua relazionalità. Ciò che Abramo è, lo è in rapporto al suo essere padre di un popolo, anzi di una moltitudine di popoli, in una visione già segnata da istanze universalistiche. L’alleanza di Dio con Abramo si esplicita nel dono di una discendenza e di una terra, con quel legame tra sangue e suolo che segna da sempre la storia degli uomini, nel concatenarsi delle generazioni e nel radicarsi spaziale delle civiltà. Lungi dal distrarre da questo mondo, l’alleanza di Dio ci proietta verso una responsabilità per il futuro delle generazioni e per la custodia del mondo.


E anche in queste prospettive mi sembra di poter scorgere elementi di particolare significato per la responsabilità politica. Dire ‘polis’ significa dire questa solidarietà tra i gruppi umani e il succedersi delle generazioni nel contesto di uno spazio vitale, di una terra. Non è forse aver dimenticato questi nessi ciò che sta causando la crisi che oggi ci attanaglia? E non è un egoismo locale e generazionale quello che ci impedisce di dare una svolta etica alla condizione attuale di globalizzazione e di aprirci con generosità alla vita e al farci carico della formazione nella libertà delle nuove generazioni?


4. Solo riscoprendo questi legami potremo dare futuro alla nostra civiltà e dare ragioni di speranza a nostri giovani. Ma per far questo, i cristiani sanno che non ci si può appoggiare sulle fragili spalle dell’operosità umana. Ci sorregge invece la certezza che la lotta tra bene e male è già stata combattuta per noi e ha avuto un vincitore: il Crocifisso che è ora il Risorto, e in lui la speranza ha ragioni di certezza. Questo spirito pasquale è lo spirito che deve animare anche i politici cattolici, che sanno come la luce del Vangelo sia capace di aprire squarci di verità da offrire alla condivisione di tutti, e la certezza della presenza di Cristo nella storia costituisce una forza inesauribile di bene a cui ancorare ogni nostro progetto. Saperci sempre nutrire di questa convinta fede è l’augurio che oggi ci scambiamo nella Pasqua del Signore.


 


+ Giuseppe Betori


Arcivescovo di Firenze