Nel breve spazio che va dal nostro Battistero a questa Cattedrale e nel breve tempo che ha separato il nostro ingresso trionfale in questo Duomo dalla proclamazione del racconto della Passione del Signore si è consumato nel rito il dramma del Figlio di Dio fatto uomo per amore nostro: dall”Osanna!’ delle acclamazioni di chi alle porte della città vedeva in lui il Messia, al ‘Crocifiggilo!’ di chi di lì a poco avrebbe visto in lui soltanto un malfattore, carico di tutte le possibili colpe del mondo.
È un cammino, questo, al tempo stesso reale e simbolico, teso a raggiungere il vertice di Gerusalemme, ma non si ferma sui colli dove sorgono i palazzi dei potenti, i luoghi che si potrebbe ritenere degni di un Re; si conclude invece su un’altura appena più elevata, qualche passo fuori dalle mura della città, un posto che la gente chiama ‘luogo del cranio’, in ebraico Golgota. Solo lì, finalmente, Gesù, ‘Il re dei Giudei’, come recita la scritta che pende sopra di lui, rivela il volto della sua regalità, appeso a una croce.
All’interno di questo cammino si consuma il dramma di un Maestro che viene abbandonato dai suoi discepoli, di un uomo appena acclamato come Re che viene presto rifiutato da tutti, di un profeta indifeso che rimane schiacciato tra i convergenti interessi dei potenti e dei dominatori di questo mondo, pronti a scaricare su di lui tutta la violenza di cui è gravido il mondo, che ha bisogno di un capro espiatorio su cui concentrare la rabbia di tutti e così mantenere intatti equilibri antichi che lasciano i più deboli sempre ai margini.
Ma tutto questo non basta a comprendere il fondo del dramma, se dimentichiamo che colui che viene portato a morte è il Figlio stesso di Dio, come egli stesso proclama, rispondendo: ‘Io lo sono!’ alla domanda: ‘Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?’. Alla luce di questa confessione, diventa evidente che qui non si sta giocando l’ennesimo scontro tra gli uomini e i gruppi umani, ma si realizza il confronto supremo tra Dio e l’umanità, messa di fronte alla responsabilità di dire sì o no al suo Signore, vale a dire di pensarsi interprete della sua volontà o di scegliere secondo i propri desideri.
Questo dramma viene descritto nel vangelo secondo Marco senza soverchi commenti, senza scivolamenti in analisi psicologiche, ma anche senza esplicite interpretazioni teologiche. Tutto è affidato alla crudezza dei fatti, rappresentati nella loro asciutta gravità ‘ e nella irriverenza che portano con sé i fatti a differenza delle opinioni, passibili di ogni edulcorazione ‘, perché l’abisso di iniquità e di dolore che trasuda dai fatti della passione basta da solo a dire l’infamia del misfatto che vi si consuma e quindi la grandezza del gesto di verità e di amore di cui è protagonista Gesù di Nazaret, che come agnello innocente si offre al sacrificio.
C’è un pericolo, che si può insinuare anche nella più pura prospettiva di fede, che consiste nel voler a forza spiritualizzare la concretezza storica della vita del Signore, quasi si abbia paura di toccare lo scandalo dell’umanità in cui il Figlio di Dio si è fatto presente tra noi. Nulla di più sbagliato, perché su questa strada di falsa spiritualizzazione ci si può trovare ben presto inclini a cadere nella riduzione mitologica del mistero dell’incarnazione o nella sua evaporazione nella gnosi. È allora importante tornare al realismo dell’evangelista Marco, per riassaporare la concretezza dell’incarnazione di Cristo e la realtà tragica della sua passione, base indispensabile per un cristianesimo che non voglia sfuggire alla concretezza della storia e al confronto con gli interrogativi mutevoli delle vicende degli uomini. Sono proprio i grandi mistici, in particolare le grandi mistiche, come
Ma il realismo della descrizione dei fatti, se ci aiuta a confermarci nella verità della vicenda narrata, non basta ovviamente a farci capire il senso del dramma che si compie. Ed ecco allora, già nel vangelo secondo Marco, il ricorso alle parole delle antiche Scritture, spesso messe in bocca allo stesso Gesù, per indicarci la direzione verso cui guardare per intendere il significato della passione. Lo fa anche la liturgia, accostando il brano del vangelo al testo del secondo Isaia, che ci parla delle sofferenze del servo del Signore, come carattere distintivo della fedeltà alla missione affidatagli da Dio e modo con cui questa missione rivela il suo volto salvifico. Perché è proprio questa prospettiva salvifica a darci il senso ultimo di un dramma che è sì di dolore immenso ma al tempo stesso è anche di salvezza. Lo esprime in maniera insuperata l’inno della lettera ai Filippesi, che abbiamo anch’esso proclamato in questa liturgia, dove l’intera vicenda storica di Gesù è riassunta nella dinamica di umiliazione ed esaltazione: lo spogliarsi della condizione divina da parte del Figlio di Dio e il suo farsi carico del peccato del mondo diventa il necessario passaggio perché si realizzi quell’innalzamento con cui Cristo riconduce al Padre se stesso e l’intera umanità.
In questo sprofondare nell’abisso del peccato degli uomini e nelle tenebre della morte, che ne sono la conseguenza, Gesù non subisce nulla che egli non voglia per un desiderio di amore che trasforma la sua vita in un dono fatto a tutti noi. Così che se oggi ci viene chiesto di entrare anche noi in Gerusalemme, di ascendere alla santa città, siamo posti di fronte ad una scelta senza scampo: o fare come i discepoli e le folle, che di fronte al consumarsi del dramma si allontanano o si fanno oppositori, ovvero scegliere di condividere con Gesù la medesima logica della donazione di sé e dell’amore che non teme la sofferenza, ma anzi in essa trova le forme più adeguate per esprimere la spogliazione di sé e l’abbandono al fratello.
Qui ci vengono in soccorso le ben note parole della nostra santa Maria Maddalena de’ Pazzi. ‘Amate e patite, patite e amate. Queste due cose vanno insieme: l’amore ci fa patire e il patire ci fa amare’. Non c’è chi non veda come queste parole entrino in collisione con il pensiero egemone di questi nostri giorni, che vorrebbe cancellare il patire e si illude che l’amore sia legato al godere. Se non si vuole ridurre il messaggio del Vangelo a un semplice progetto di riforma sociale che combatta le varie forme di povertà, se non si vuole confondere il regno di Dio con il mito del progresso, se non si vuole trasformare la forza innovativa della parola di Cristo in una panacea psicologica che attutisce le angosce, allora dobbiamo prendere sul serio questa stretta correlazione tra sofferenza e amore che la passione di Gesù ci rivela come il fondamento della salvezza dell’uomo.
E se nel racconto della passione si incontrano traditori come Giuda, uomini audaci ma fragili come Pietro, oppure pusillanimi come gli altri apostoli, c’è però anche chi compie gesti di amore e devozione come la donna che sparge profumo sul capo di Gesù, chi porta con Gesù la croce come Simone il cireneo, chi sta ai piedi di quella croce senza vergogna e paura come le donne, chi mostra pietà e compassione offrendo l’ospitalità di un sepolcro come Giuseppe di Arimatea, chi nell’istante supremo riesce a dire con nettezza la fede come fa il centurione romano: ‘Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!’, perché per amare e patire così non basta un cuore di uomo, ci vuole il cuore stesso di Dio. Prossimi e solidali al Crocifisso, costoro ci indicano una strada di condivisione del suo amore che non teme di patire, ma sulla passione edifica una purezza di intenzioni e di scelte che aprono alla speranza, oltre il sepolcro. Senza aderire al mistero e alla concreta realtà delle croce anche la nostra vita rischia di sprofondare in un languido buonismo o in un umanismo senza spessore. Se la croce è la misura dell’amore con cui Gesù ci ha amati, sarà la generosità con cui saremo capaci di farci carico delle croci nostre e degli altri a dire quanto profondo è il nostro amore per Gesù e per i fratelli.
+ Giuseppe Betori
Arcivescovo di Firenze