Epifania del Signore

[Is 60,1-6; Sal 71; Ef 13,2-3.5-6; Mt 2,1-12]
06-01-2009


 


 




 


1. «Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. [‘] Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» (Is 60,1.3). Il fulgore della luce che ci ha accolti nella notte di Betlemme continua a splendere in questi giorni di Natale e costituisce la cifra distintiva dell’immagine della salvezza che scaturisce dalla mangiatoia che custodisce il Figlio di Dio fatto uomo. È lui «la luce vera, quella che illumina ogni uomo», come ci ha ricordato l’evangelista Giovanni nel prologo del vangelo, che abbiamo proclamato nel giorno di Natale (Gv 1,9). Il mondo delle tenebre del male ha trovato in Gesù un antagonista vittorioso: «la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5).


La sete di conoscenza della verità, che spinge la ricerca dell’uomo e che viene simboleggiata nel vangelo di Matteo nella figura dei Magi, i sapienti dell’Oriente, trova solo nella stella di Gesù, che l’indovino Balaam aveva preannunciato sorgere da Israele (cf. Nm 24,17), l’indicazione per un cammino fruttuoso; e solo dall’incontro con Gesù, splendore eterno del Padre, colui che nel Credo proclamiamo come «luce da luce», questa ricerca trova risposta definitiva alle attese della mente e del cuore.


Di questa funzione di Cristo come luce della ricerca dell’uomo sentiamo particolarmente bisogno nel nostro tempo, in cui lo stesso concetto di verità sembra essere sepolto sotto le troppe opinioni che vi rinunciano programmaticamente, in nome di un timore dell’assolutezza che la verità porterebbe con sé instaurando un clima di intolleranza. Questo potrebbe esser vero se la verità di cui stiamo parlando potesse essere disgiunta dall’amore, ma diventa una posizione insostenibile nel momento in cui la fede ci aiuta a scorgere nel volto di Dio l’assoluta identità di Verità e Amore. Rinunciare alla verità assoluta non assicurerebbe peraltro quella convivenza tollerante che alcuni vorrebbero opporre alla fede cristiana, lasciando di fatto spazio alla concorrenza conflittuale dei desideri molteplici e divergenti, ma soprattutto significherebbe dover rinunciare da parte dell’uomo all’aspirazione più alta di sé, a quel trascendimento che si trova inscritto nel suo essere e che nessuna sofisticata manipolazione delle coscienze potrà mai del tutto annullare. E a quel punto la scelta è senza scampo, tra una delle tante varianti ideologiche che l’uomo si fabbrica da sé e la rivelazione che Dio fa di se stesso aprendoci a un tempo il suo e il nostro mistero, tra un umanesimo ateo, e alla fine nichilista, e il vero umanesimo che trae alimento dall’uomo-Dio Gesù, immagine perfetta del Padre.


Ma a provocarci ancor di più su questa strada della rivelazione della verità è che su di essa troviamo non semplicemente dei sapienti, ma uomini che vengono dall’Oriente, vale a dire non dal grembo del popolo di Dio bensì dalle lontane terre di altre tradizioni e culture, anche religiose. In loro prende forma quanto aveva predetto il profeta Isaia a riguardo di Gerusalemme: « Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Màdian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore» (Is 60,6). Ma nel vangelo la profezia si attua non più in rapporto alla città santa, bensì alla dimora che accoglie il piccolo Bambino nato da Maria. La prospettiva dell’universalità della verità e della salvezza si innalza con forza dal mistero dell’Epifania del Signore, in modo che colui che viene a manifestarsi non lo fa per alcuni, pochi o tanti che siano, ma per tutti, avendo come confine i confini stessi del mondo. Non secondo una logica della sostituzione, per cui invece di Israele ora lo spazio della salvezza si aprirebbe alle genti, ma secondo una prospettiva di allargamento e di inclusione, per cui la Chiesa abbraccia tutti i popoli senza distinzioni. Come ha detto san Paolo, «le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo» (Ef 3,6).


La visione di Isaia ha al centro la figura di Sion, la città santa di Israele, e vede come protagonisti anzitutto gli stessi israeliti che tornano dei molti luoghi del loro esilio e dispersione, avendo però accanto a sé le genti che ora si riconoscono preda delle tenebre e si lasciano attrarre dalla luce che si diffonde dalla città di Dio. Nel vangelo di Matteo il quadro muta ancora, perché non solo la città è sostituita da un bambino, ma coloro che si accostano a lui per adorarlo sono tutti provenienti dalle genti e, abbattendo il muro che separava i popoli, si aggiungono ai ‘poveri del Signore’ che già circondano il neonato: sua madre, il padre putativo, i pastori. Quel Bambino è venuto per tutti e a tutti si propone come luce del mondo. La dimensione missionaria non si aggiunge in seguito alla presenza del Salvatore, ma la connota fin dall’inizio e la trasmette anche agli inizi della Chiesa che egli viene a fondare, mandata a fare discepoli tutti i popoli e a battezzare tutti gli uomini (cf. Mt 28,19). Alla Chiesa infatti si rivolgono ora le parole di Isaia, perché sia consapevole che in Gesù essa ha ricevuto una luce gloriosa che, brillando in lei, ne fa un faro di luce per tutti i popoli della terra.


Questa consapevolezza e questo slancio missionario hanno bisogno di essere oggi rinnovati con convinzione nelle nostre comunità, sia nel sostenere lo sforzo di annuncio del Vangelo tra i popoli lontani, che missionari e missionarie anche a nome nostro testimoniano nel mondo ‘ e non mancano pure figli della nostra Chiesa fiorentina su questo fronte della missione alle genti ‘, sia nel prendere coscienza che anche tra noi è il tempo di una rinnovata missione, verso coloro che non hanno mai conosciuto Cristo, o perché giunti tra noi da nazioni e culture lontane o perché figli di una società che ha cancellato i segni della fede dalla sua cultura e non ne ha trasmesso la conoscenza nella catena delle generazioni.


A tutto ciò non siamo pronti, dobbiamo riconoscerlo, troppo spesso legati a forme abitudinarie della religiosità o a modelli pastorali sì impegnati ma più capaci di conservare che di iniziare. Si tratta di formulare itinerari capaci di introdurre alla fede, e prima ancora occorre individuare forme di provocazione alla fede che aprano le menti e i cuori alla proclamazione dell’annuncio. Occorre interrogarci su come rendere in tal senso più trasparenti ed efficaci i modi con cui il Vangelo viene testimoniato come fattore di novità per il mondo nelle forme del servizio della carità ma anche in quello della provocazione culturale. Prima ancora di essere detto, infatti, il Vangelo va mostrato nelle sue virtualità di vita piena che si esprimono in particolare sui fronti della carità e della cultura. Questo perché siamo convinti che lo splendore della gloria di Dio di cui parla Isaia e di cui rendono testimonianza i Magi è capace di gettare una luce nuova oltre l’impossibile delle tenebre umane, non perché schiacci l’umano ma perché lo rivela nella sua identità più vera. In tal senso la missione cristiana non è conflitto con l’uomo e le sue aspirazioni, ma svelamento all’uomo delle sue attese più autentiche e del dono, il Cristo Gesù, che le soddisfa in pienezza. Anche per noi, come per i Magi, è a disposizione una gioia grandissima, a cui rispondere con l’adorazione e il dono di noi stessi.


Ma non possiamo chiudere queste nostre riflessioni dimenticando che il Bambino che si offre a tutti i popoli dalla dimora di Betlemme è il Principe della pace. Lo abbiamo ricordato pregando nel salmo responsoriale: «O Dio, affida al re il tuo diritto, al figlio di re la tua giustizia [‘]. Nei suoi giorni fiorisca il giusto e abbondi la pace». Sono parole che pronunciamo con particolare turbamento in questi giorni con riferimento alla terra di Gesù. Sentiamo di dover far nostre le parole di domenica scorsa del Santo Padre: «I Patriarchi ed i Capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme oggi, in tutte le Chiese della Terrasanta, invitano i fedeli a pregare per la fine del conflitto nella striscia di Gaza e implorare giustizia e pace per la loro terra. Mi unisco a loro e chiedo anche a voi di fare altrettanto, ricordando, come essi dicono, ‘le vittime, i feriti, quanti hanno il cuore spezzato, chi vive nell’angoscia e nel timore, perché Dio li benedica con la consolazione, la pazienza e la pace che vengono da Lui’. Le drammatiche notizie che ci giungono da Gaza mostrano quanto il rifiuto del dialogo porti a situazioni che gravano indicibilmente sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra. La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi. Lo conferma anche la storia più recente. Preghiamo, dunque, affinché ‘il Bambino nella mangiatoia… ispiri le autorità e i responsabili di entrambi i fronti, israeliano e palestinese, a un’azione immediata per porre fine all’attuale tragica situazione’». Così il Santo Padre, così la nostra Chiesa fiorentina. Amen


 


+ Giuseppe Betori


Arcivescovo di Firenze