Messa per la chiusura della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

[Ez 37,1-14; Sal 104; Ap 21,1-5a; Mt 5,1-12]
25-01-2009


 


1. La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani fa coincidere, in questo suo giorno conclusivo, la memoria della conversione di san Paolo e il tema dell’unità dei cristiani come germe di speranza per un mondo segnato da lacerazioni e discordie. E in realtà i due riferimenti ben si uniscono tra loro, se appena ci rendiamo conto come la conversione dell’apostolo delle genti ha rappresentato anzitutto per lo stesso Paolo la ricomposizione della sua persona attorno all’esperienza di Gesù risorto, così che la promessa di risurrezione di cui il popolo di Israele era depositario e che veniva coltivata nella tradizione farisaica che lo vedeva attivo protagonista smetteva di essere una tensione inappagata dello spirito per diventare fatto concreto nella carne di Cristo trasfigurata dallo Spirito di risurrezione. Ma la conversione di Paolo è anche l’inizio di un’altra riconciliazione, quella per cui attraverso il suo ministero di apostolo delle genti, che prende l’avvio dal comando del Risorto comunicatogli tramite Anania e poi ribaditogli nella visione nel tempio, la parola della rivelazione che fino a quel momento aveva creato la separazione tra il popolo eletto di Dio e tutte le altre nazioni della terra viene superata e il messaggio della salvezza raggiunge ogni uomo e ogni donna nel mondo.


Questa grande opera di riconciliazione personale e universale trae origine in una volontà divina che fa di Paolo il suo strumento eletto per raggiungere i confini del mondo e immettere in questo mondo quel principio di novità del cui esito finale si incarica di parlarci il libro dell’Apocalisse nella visione che è stata descritta nella seconda lettura. Una nuova città prende il posto della città che gli uomini avevano tentato di costruire a Babele e che continuamente ritentano di costruire lungo i secoli come convivenza fondata sulle loro sole forze, che prescinda da Dio, che si esaurisca nei loro desideri. Ma se si lascia spazio a Dio, se Dio lo si fa abitare fra di noi, se gli è data la possibilità di essere un ‘Dio-con-noi’, in quel momento si getta il seme di una umanità nuova, capace di vincere i suoi stessi limiti, di sconfiggere la sofferenza dell’esistenza, perché sa che la morte non è l’ultima parola sulla vita, ma oltre essa risplende la luce del Risorto e con lui la nostra risurrezione.


La radice di questa novità sta, come ci insegna il testo del profeta Ezechiele, nel fatto che l’aridità dello spirito dell’uomo è sostituita dalla vitalità dello spirito di Dio. Questa irruzione della vita divina nella realtà umana è il fondamento della vera rigenerazione dell’uomo dalle sue miserie e dalle sue disarticolazioni. La ricomposizione dell’umano in unità, una delle attese più profonde della nostra condizione contemporanea, è possibile non a partire da una nostra volontà semplificatrice, che alla fine produce persone a una dimensione, ma per la disponibilità a lasciar agire in noi quello spirito divino che ci è trasmesso dalla parola stessa di Dio e che nella Chiesa è comunicato nei gesti di grazia di cui essa è custode e dispensatrice.


Ma perché l’azione della Chiesa si esprima con coerenza tra ciò che annuncia e ciò che vive, occorre che l’appello-proposta a una ricomposizione di tutto l’umano nella persona e nella società, senza riduzioni ed emarginazioni, deve corrispondere una tensione della Chiesa verso l’unità di tutti i discepoli del Signore, che della comunione con lui e tra di loro hanno fatto il senso e lo scopo del loro convenire. La speranza di un uomo e di un mondo riconciliato esige una tensione delle Chiese e delle comunità cristiane alla riconciliazione e all’unità.


La tensione non è però vuoto desiderio, bensì cammino concreto di purificazione, secondo parametri che non siamo noi stessi a darci ma ci sono offerti dal Signore Gesù. Ne è sintesi suprema il testo delle beatitudini che abbiamo ascoltato nella proclamazione del Vangelo. Lì, come ben sappiamo, tutto ruota attorno alla beatitudine dei poveri, dove la povertà in spirito equivale a quell’atteggiamento di umiltà e di affidamento al Padre che fonda ogni ulteriore virtù, atteggiamento e comportamento. Riscoprendoci figli di un Padre amorevole e quindi fratelli chiamati a comunione amorosa, si può creare il tessuto capace di generare riconciliazione e unità. Purché ricordiamo che tutto questo non scaturisce da nostre decisioni e risorse, ma è il frutto della nostra immedesimazione a Cristo, il primo e unico vero povero in spirito, che dà manifestazione piena di sé in quell’offerta al Padre e ai fratelli che compie sulla croce. La radice cristologica delle beatitudini è essenziale per sfuggire a una loro lettura in chiave di codice etico e per dare ragione di quella promessa di compimento escatologico che sostanzia il contenuto della beatitudine stessa, il farsi tra noi di quel regno di Dio che è regno di amore, di unità e di pace.


E in questa radice cristologica dell’unità ritroviamo il pensiero di Paolo, che ci ha insegnato a scorgere in Cristo la nostra pace, colui che fa di due una cosa sola, un solo popolo, a lui fedele perché da lui fondato e formato. A lui quindi affidiamo le nostre aspirazioni e le nostre ricerche di unità.


 


X Giuseppe Betori


Arcivescovo di Firenze