1.
Questa grande opera di riconciliazione personale e universale trae origine in una volontà divina che fa di Paolo il suo strumento eletto per raggiungere i confini del mondo e immettere in questo mondo quel principio di novità del cui esito finale si incarica di parlarci il libro dell’Apocalisse nella visione che è stata descritta nella seconda lettura. Una nuova città prende il posto della città che gli uomini avevano tentato di costruire a Babele e che continuamente ritentano di costruire lungo i secoli come convivenza fondata sulle loro sole forze, che prescinda da Dio, che si esaurisca nei loro desideri. Ma se si lascia spazio a Dio, se Dio lo si fa abitare fra di noi, se gli è data la possibilità di essere un ‘Dio-con-noi’, in quel momento si getta il seme di una umanità nuova, capace di vincere i suoi stessi limiti, di sconfiggere la sofferenza dell’esistenza, perché sa che la morte non è l’ultima parola sulla vita, ma oltre essa risplende la luce del Risorto e con lui la nostra risurrezione.
La radice di questa novità sta, come ci insegna il testo del profeta Ezechiele, nel fatto che l’aridità dello spirito dell’uomo è sostituita dalla vitalità dello spirito di Dio. Questa irruzione della vita divina nella realtà umana è il fondamento della vera rigenerazione dell’uomo dalle sue miserie e dalle sue disarticolazioni. La ricomposizione dell’umano in unità, una delle attese più profonde della nostra condizione contemporanea, è possibile non a partire da una nostra volontà semplificatrice, che alla fine produce persone a una dimensione, ma per la disponibilità a lasciar agire in noi quello spirito divino che ci è trasmesso dalla parola stessa di Dio e che nella Chiesa è comunicato nei gesti di grazia di cui essa è custode e dispensatrice.
Ma perché l’azione della Chiesa si esprima con coerenza tra ciò che annuncia e ciò che vive, occorre che l’appello-proposta a una ricomposizione di tutto l’umano nella persona e nella società, senza riduzioni ed emarginazioni, deve corrispondere una tensione della Chiesa verso l’unità di tutti i discepoli del Signore, che della comunione con lui e tra di loro hanno fatto il senso e lo scopo del loro convenire. La speranza di un uomo e di un mondo riconciliato esige una tensione delle Chiese e delle comunità cristiane alla riconciliazione e all’unità.
La tensione non è però vuoto desiderio, bensì cammino concreto di purificazione, secondo parametri che non siamo noi stessi a darci ma ci sono offerti dal Signore Gesù. Ne è sintesi suprema il testo delle beatitudini che abbiamo ascoltato nella proclamazione del Vangelo. Lì, come ben sappiamo, tutto ruota attorno alla beatitudine dei poveri, dove la povertà in spirito equivale a quell’atteggiamento di umiltà e di affidamento al Padre che fonda ogni ulteriore virtù, atteggiamento e comportamento. Riscoprendoci figli di un Padre amorevole e quindi fratelli chiamati a comunione amorosa, si può creare il tessuto capace di generare riconciliazione e unità. Purché ricordiamo che tutto questo non scaturisce da nostre decisioni e risorse, ma è il frutto della nostra immedesimazione a Cristo, il primo e unico vero povero in spirito, che dà manifestazione piena di sé in quell’offerta al Padre e ai fratelli che compie sulla croce. La radice cristologica delle beatitudini è essenziale per sfuggire a una loro lettura in chiave di codice etico e per dare ragione di quella promessa di compimento escatologico che sostanzia il contenuto della beatitudine stessa, il farsi tra noi di quel regno di Dio che è regno di amore, di unità e di pace.
E in questa radice cristologica dell’unità ritroviamo il pensiero di Paolo, che ci ha insegnato a scorgere in Cristo la nostra pace, colui che fa di due una cosa sola, un solo popolo, a lui fedele perché da lui fondato e formato. A lui quindi affidiamo le nostre aspirazioni e le nostre ricerche di unità.
X Giuseppe Betori
Arcivescovo di Firenze